domenica 21 aprile 2024

Suzume (2022) | Recensione

Suzume
Voto Imdb: 7,6

Titolo Originale:すずめの戸締まり, Suzume no tojimari
Anno:2022
Genere:Animazione, Avventura, Commedia, Fantastico
Nazione:Giappone
Regista:Makoto Shinkai
Cast:Nanoka Hara, Hokuto Matsumura, Eri Fukatsu


Suzume, Souta e la porta

Scusate l'assenza. Troppe cose, troppi impegni. Ma mi sembra giusto e doveroso continuare l'analisi in dettaglio del lavoro di Makoto Shinkai, soprattutto ora che è disponibile anche su Netflix e non avete più scuse per ignorarlo!

Eh. Lo attendevo al varco, il suo nuovo lungometraggio. Ho passato il tempo a domandarmi: “Che percorso intraprenderà Makoto? Resterà nella comfort zone o questa volta proverà a fare un salto?” per poi arrivare a questa, la domanda delle domande, anzi la domandona: “È dunque arrivata la Grande Svolta?”

Rispostona: ci ha provato, sì. Ma ci è riuscito solo a metà. Portando a casa un film comunque godibilissimo, più maturo, e che merita a mio avviso un voto elevato, sicuramente più di Weathering with You, ma di questo confronto - così come di quello con Your Name - ci arriveremo più avanti. Non ho citato gli ultimi titoli per caso, perché idealmente potremmo considerarli una sorta di trilogia, più precisamente la Trilogia della Catastrofe. Tre modi diversi di raccontare una storia con molti punti in comune e con finali apparentemente simili nonostante l’ultimo lavoro tenti un approccio più maturo ma non per questo meno scanzonato, almeno nella prima parte.

Sì ok, tanti giri di parole per non dire nulla: di cosa parla Suzume? (titolo originale: Suzume no tojimari, lett. "Le porte chiuse di Suzume" o "Suzume che chiude le porte", cit. Wikipedia)

Il primo portale nel villaggio termale

Tramona!

Curioso notare come cambiano i protagonisti nella Trilogia della Catastrofe: In Your Name sono una coppia; in Weathering with you è un ragazzo; per forza di cose e per differenziarsi, in Suzume è una ragazza diciassettenne orfana che vive insieme alla zia Tamaki, una quarantenne single che ha passato gli ultimi 12 anni a prendersi cura della figlia della sorella morta in circostanze tragiche che scopriremo in uno dei momenti rivelatori della trama. Suzume è una di noi e sembra non avere particolari poteri o abilità, vive una vita tranquilla nella prefettura di Miyazaki - profondo sud del Giappone - in una cittadina abbastanza rurale e lontana dalle frenetiche metropoli moderne. Un giorno Suzume incrocia un bel ragazzo che le chiede indicazioni su dove si trovino delle antiche rovine; la ragazza gli risponde e, mossa da curiosità, prova a seguirlo. Quando arriva al centro del villaggio abbandonato, nota una porta solitaria ergersi nel mezzo del nulla, sorretta solamente dal telaio. Incuriosita, prova ad aprirla e vede una volta celeste che avvolge un luogo indefinito circondato da prati verde smeraldo e stelle luminosissime. Suzume prova più volte a entrare in questo mondo, così simile a un ricordo o, meglio, a una visione che si porta dietro da quando era piccola: l’immagine di una bambina di quattro anni, sotto proprio quella volta celeste, che piange e corre affannosa alla ricerca della madre fino a quando non la scorge: una figura rassicurante, sorridente, ma avvolta dalla nebbia del ricordo. Suzume si riconosce in quella sequenza enigmatica, è lei a quattro anni, sola e disperata. Ma niente, quel posto rimane inaccessibile e a malincuore la ragazza è costretta a desistere. Torna a scuola ma poco dopo arrivano segnalazioni di un imminente terremoto mentre proprio dal punto in cui si trova il villaggio abbandonato si innalza una enorme, stranissima figura che sembra un verme rossastro di fumo, che solamente lei è in grado di vedere. Suzume non ci pensa due volte: nel mezzo delle scosse di terremoto sempre più vibranti sfreccia verso il villaggio termale e, quando lo raggiunge, scopre che l’enorme verme rossastro sta cercando di uscire proprio dalla misteriosa porta che il ragazzo incontrato in mattinata sta disperatamente provando a chiudere. La ragazza lo aiuta e la porta viene chiusa accompagnata dalle frasi di un arcano rituale sussurrato. Nell’azione concitata di poco prima, il ragazzo si è ferito al braccio e Suzume lo accoglie a casa sua per curarlo. Qui viene svelata una prima parte di verità: lui si chiama Souta ed è un “Chiudiporte”, ruolo che la sua famiglia ricopre da generazioni. Il “Chiudiporte” ha l’ingrato compito di trovare in giro per il paese questi esseri di fumo, generato dalle anime, dal risentimento, dalle emozioni negative delle persone, per respingerli nel loro mondo attraverso le "porte", veri e propri passaggi dimensionali. Mentre Suzume e Souta stanno parlando, nell’appartamento compare un gatto bianco che inizia a parlare la lingua degli umani! L'essere è una sorta di divinità guardiana dei portali e, prima di dileguarsi nuovamente, dice a Souta di essere di intralcio e gli lancia una maledizione trasformandolo nella sedia rotta a tre gambe su cui si era seduto. In una scena assurda ed esilarante, il gatto scappa via per il paesino, inseguito da Souta tramutato nella sedia a tre gambe e da una stupefatta Suzume. Ma niente da fare: il gatto sale su un traghetto, sempre inseguito dal bizzarro duo, per poi dileguarsi e ricomparire nella città di Ehime, catturato dalle fotografie dei passanti che lo eleggono subito a star dei social, affibbiandogli il nome di Daijin (“ministro” in giapponese). C’è solo un modo per far ritornare Souta umano e scoprire la verità su Daijin: inseguire il gatto-demone per tutto il Giappone! Inizia così un lungo viaggio che Suzume compirà insieme a Souta trasformato nella sedia-ricordo, elemento che servirà a regalarci scene buffe in grado di alleggerire notevolmente l’atmosfera. Da sud a nord, il duo farà diverse tappe, guidate a distanza da Daijin, passando per Tokyo e spingendosi ancora oltre. Lungo il viaggio Suzume farà amicizia con diverse persone altrettanto pure di cuore che troveranno il modo di aiutarla a superare le difficoltà. Cosa troveranno la ragazza e la sedia alla fine del viaggio? Cosa lega Suzume ai suoi ricordi di bambina, alla mamma, al gatto-demone, ai “vermi” in grado di provocare i grossi terremoti del Giappone? Lungo le sue due ore piene, il film cerca di dare una risposta a tutte queste domande e, talvolta, generandone di nuove senza soluzione.


Lo spirito Daijin: non è terribilmente kawaii?

Commento
Il film Suzume parte come una commedia (spruzzata di romanticismo), si evolve in un road movie, e sfocia nell’avventura soprannaturale. Ho deciso di raccontarvi in dettaglio il primo quarto d’ora perché c’è la summa di TUTTO Shinkai in ogni fotogramma. È come se avesse preso i suoi cliché e li avesse rimescolati generando un qualcosa di nuovo ma che comunque ci restituisce una dolce sensazione di già visto. Ce lo vedo, il Makoto, a provare a prenderci per mano e dirci: “Ti faccio fare un nuovo viaggio, ci saranno tante novità ma se hai paura dell’ignoto non preoccuparti! Se io ti sono piaciuto con gli altri film, gli elementi che già conosci sono presenti anche qui. Sei nella tua comfort zone.”

E qui, amici miei, squillano diecimila campanelli d’allarme.
Io non sono nella mia comfort zone, Makoto. Sono nella tua.
Quanto vi ho smarronato in Weathering with You con questo concetto? Tantissimo, forse più del dovuto. E lo stesso avviene anche qui. Vi dirò di più, con questa dichiarazione forte: Suzume è un Agartha 2.0 più maturo e meno sconclusionato, è un “Caro Hayao Miyazaki, là fuori continuano ad accostarci; è vero, prima ti ho scimmiottato ma ora sto provando a percorrere la strada con i miei (tre) piedini”. Però lo fai con il tuo solito stile, Makoto. Non parlo di quello visivo, col quale mi hai conquistato fin da subito e a causa del quale io casco in pieno nel tuo maledetto incantesimo, tutte le fottutissime volte. Parlo della tua idea, del tuo percorso, del modo con cui ci porti in viaggio. Anche se stavolta qualche elemento nuovo, per fortuna, davvero c’è.


Una simpatica rissa tra Souta (in modalità sedia) e Daijin


La poetica di Shinkai attraverso le immagini.
Partiamo dal punto forte del film, quello che tutti aspettiamo quando leggiamo il nome di Shinkai sulla locandina: l’aspetto visivo. Lo confermo, anzi lo grido ai sette venti: tecnicamente l’asticella si è innalzata ulteriormente. Il film è una gioia per gli occhi, un tripudio di colori, di fondali strepitosi integrati con la CGI, di disegni particolareggiati che restituiscono un mondo vivo, realistico, quasi tangibile. Lo studio delle inquadrature è ottimo, tutto è chiaro e finalizzato alla totale immersione dello spettatore nell’atmosfera. Sì, dieci volte sì: Suzume è un vero spettacolo. I giochi di luci e di ombre raggiungono livelli strabilianti, lo dico in quanto totalmente conquistato dall’impianto visivo; solo un aspetto stona tantissimo, si tratta dei vermi rossi in CGI, soprattutto l’ultimo: davvero un pugno nell’occhio che poco si amalgama con il resto degli sfondi. Per fortuna stiamo parlando di minuzie.

Tirato un sospiro di sollievo, passiamo agli altri aspetti che ci stanno a cuore. La poetica di Shinkai, come recita il titolo del paragrafo, è quella di sempre. C’è una storia d’amore, che qui è solo un mezzo, un pretesto per giustificare alcune scelte ma non è il centro motore del film; ci sono i treni - addirittura in una bellissima inquadratura vediamo uno Shinkansen che supera di slancio un treno più vecchio, destinato alle regioni meno metropolitane del Giappone. Ci sono gli uccelli in più inquadrature. C’è un gatto, anzi (spoiler!) due, che avranno un ruolo centrale per lo svolgimento della trama. C’è la fusione tra il mondo reale e quello fantastico, una specie di aldilà rivisitato secondo una concezione molto vicina a quella shintoista. C’è la colonna sonora pop dei Radwimps, c’è la pioggia, c’è la malinconia rappresentata dai quartieri abbandonati nei quali albergano le porte di comunicazione tra i mondi. C’è la spiritualità e l’allegoria come mezzo per veicolare un messaggio, c’è di nuovo un accenno all’incomunicabilità, questa volta data dal rapporto tra una ragazza e una sedia parlante.

Ma stavolta abbiamo qualcosa di più, che è l’aspetto più interessante del film ma che, purtroppo, ne è anche un po’ il punto debole. Ed è proprio il messaggio che Makoto ha voluto lasciare agli spettatori.

Suzume parla principalmente della elaborazione del lutto della protagonista come mezzo per mostrare un Giappone fragile, che ancora non ha chiuso i conti con gli avvenimenti del 2011: il terremoto del Tohoku, il conseguente tsunami e la catastrofe di Fukushima. Anche se i nomi dei luoghi non sono mai stati rivelati esplicitamente (la butto lì: forse per paura di urtare i giapponesi, popolo notoriamente conservatore che non ama gli si spiattelli in faccia i momenti bui del suo passato?), le date e i riferimenti sono precisissimi e parlano di un qualcosa di reale, di accaduto. Ecco quindi che Shinkai prova a spingersi un po’ più lontano rispetto ai canoni a cui ci ha abituato; così come in Weathering with You era stato il finale - o meglio, la scelta del protagonista - a fornire un interessantissimo elemento di rottura con i cliché giapponesi, in Suzume assistiamo non tanto a un grido quanto a un sommesso richiamo alla paura che la terra del Sol Levante è chiamata a esorcizzare ogni giorno. C’è però un problema di fondo in tutte queste belle parole: Shinkai ha sì osato, ma è tutto rimasto superficiale, accennato, dato in pasto alla mano di una Suzume di 4 anni che cancella con un pastello nero come la pece le pagine del diario relative a quelle date. Non c’è un reale approfondimento, non ci si addentra in spiegazioni o in un'esposizione dal punto di vista del regista; semplicemente, ci viene mostrata una spennellata lasciando a noi il compito di interpretare e metabolizzare. E questa superficialità di fondo è, lasciatemelo dire, un ennesimo marchio di fabbrica del regista, che ormai ho imparato a conoscere. Nelle recensioni dei film precedenti ho più volte lanciato un appello affinché trovasse la forza di compiere un vero passo in avanti, ma alla fine ho capito cosa aspettarmi. Questo è il suo stile, questo è il suo modo di raccontarci qualcosa, facciamocene una ragione; molto probabilmente se non fosse così non sarebbe nemmeno Makoto Shinkai.

Serizawa e la zia Tamaki

Prima di elencare cosa non funziona nel film, fatemi sottolineare gli altri punti di forza. Alcuni personaggi sono caratterizzati meglio di altri e, aggiungo, per fortuna. La prima è Suzume, sul cui punto di vista e sulle cui spalle si poggia quasi l’intera narrazione (tranne un'intera sequenza dedicata a Souta, e tranne qualche veloce pezzo riguardante la zia). Parte come una ragazza normale, con i suoi problemi quotidiani e la timidezza tipica di una diciassettenne, nonostante sia stata costretta a crescere prima degli altri coetanei a causa della sua condizione di orfana. Nel corso del viaggio assistiamo a una sua maturazione che la porta inevitabilmente a scendere a patti col suo passato. Altri personaggi azzeccatissimi sono la zia Tamaki e Serizawa, il migliore amico di Souta. Tamaki è una quarantenne single e ha dedicato gran parte della vita a crescere Suzume, mettendo da parte l’egoismo e la voglia di fare qualcosa per se stessa. Per quanto costretta dagli eventi, quella è stata una sua scelta che, talvolta, rimpiange tanto che in prossimità del finale assistiamo a uno dei momenti più toccanti dell’intera narrazione. Serizawa invece ha molto meno spazio, ma nelle poche battute a sua disposizione si dimostra essere un personaggio più sfaccettato, unico, completo di Souta - tanto per fare un esempio. E l’aggancio col bel tenebroso mi permette di evidenziare i punti deboli del film.

Souta

Il primo, l’avrete intuito, è proprio Souta. Al di là del fatto che richiami in modo più o meno esplicito Howl del lungometraggio di Miyazaki Il castello errante di Howl, il problema del Chiudiporte è il non avere nulla di interessante o che non sappia di già visto. Monodimensionale, senza la minima crescita, con una missione da compiere e il solito, enorme senso del dovere e del sacrificio tipico del “soldato” giapponese - passatemi il termine, qui non c’è nulla di militare ma in fondo si sta combattendo una guerra contro le paure di una nazione intera. Inoltre, l’intera storia d’amore che fa muovere Suzume è forzatissima, non c’è il minimo approfondimento; semplicemente la ragazza ha un colpo di fulmine alla prima vista del ragazzo, e da quel momento lui diventa il grande amore della sua vita, che ne condizionerà le azioni e le decisioni. L’occasione del viaggio avrebbe potuto fare da scusa perfetta per mostrarci un’evoluzione del loro rapporto ma il regista ha preferito mostrarci altro. La love story, per quanto sia fondamentale per spiegare alcuni passaggi di trama, è troppo abbozzata e superficiale per ricoprire un ruolo centrale. Il che di per sé non è un male, ma sarebbe forse servito un equilibrio maggiore. E infine, l’ennesimo tasto dolente, la sceneggiatura. Purtroppo sto iniziando a rinunciarci rassegnato all’idea che Shinkai non cambierà da questo punto di vista. In particolare mi hanno fatto storcere il naso un paio di snodi narrativi importanti dove è solo il CASO a smuovere la storia e questo, francamente, nel 2023 è abbastanza inaccettabile. Poi ho poco apprezzato alcuni passaggi abbastanza confusi e raffazzonati come per esempio il ruolo del secondo gatto-demone, che avrebbe meritato un approfondimento maggiore. Chiaro che poi il film sarebbe durato tre ore invece che due, capisco che alcune scelte dolorose siano state inevitabili ma, di nuovo, un migliore bilanciamento tra le fasi narrative non avrebbe guastato.

L'attacco a Tokyo

Siamo quasi giunti alle considerazioni finali, mancano giusto ancora un paio di piccole sottolineature: il rapporto di Shinkai con due delle sue principali fonti di ispirazione, Miyazaki e Murakami. Il regista l’ha fatto da tempo, ma qui più che mai, ha gettato la maschera manifestando in modo esplicito tutto il suo amore per il cinema del Maestro Hayao Miyazaki di cui è più che debitore. Qui due richiami sono addirittura smaccatamente espliciti: quando Daijin viene fotografato e dato in pasto ai social, qualcuno scrive: “Sembra di essere in I sospiri del cuore” (Mimi wo Sumaseba); più avanti, durante il viaggio in auto in cui si sono aggiunti Serizawa e Tamaki, sull’autoradio si sente la canzone di Kiki Delivery Service. Ma i richiami non finiscono certo qui: Souta è chiaramente Howl e, come accennato all’inizio, Suzume e la zia vivono in una cittadina della prefettura (reale) di Miyazaki. Poi altri rimandi meno evidenti ma tipici di entrambi i registi: la natura e il rapporto dell’uomo, la dicotomia modernità / tradizione, bestie sovrannaturali, gatti parlanti e dispettosi, né buoni né cattivi… eh sì, potrei essere smentito ma ho l’idea che Suzume possa essere il film più miyazakiano di Shinkai, di sicuro il suo atto d’amore più esplicito, ancora più di Agartha.
Per quanto riguarda Haruki Murakami, Makoto lo dice chiaramente in più di un’intervista: tra le sue fonti di ispirazione troviamo il più volte citato “Kafka sulla spiaggia”, uno dei romanzi di Murakami più citato e saccheggiato dal Nostro; e soprattutto il racconto illustrato “Ranocchio salva Tokyo”, in cui il signor Katagiri riceve una visita da un ranocchio gigante che gli rivela che Tokyo è in pericolo: il Gran Lombrico che vive nelle fondamenta della città sta per scatenare un enorme terremoto e solo il signor Katagiri, un signor nessuno, una persona normale senza apparenti qualità, è in grado di aiutare Ranocchio a compiere l’impresa e salvare Tokyo; perché proprio lui? Perché è un puro di cuore. Magari Suzume non ha esattamente quella caratteristica per quanto ancora ragazzina e in un certo senso immacolata e non corrotta, ma lo possiamo certamente intuire. Quello che non cambia è il background da cui Shinkai continua allegramente a saccheggiare, d’altronde Haruki Murakami ha segnato intere generazioni - la mia e quella di Shinkai soprattutto - ed è meraviglioso che qualcuno finalmente lo tributi come merita, in un’opera mainstream e di ampio respiro.

Suzume, Tamaki, Daijin e Sadaijin

Suzume - il finale e l’inevitabile confronto con Your Name e Weathering with you
CUCCIOLATA DI SPOILER COME IN UNA COLONIA DI GATTI

Due aspetti vanno secondo me spiegati per dare un giudizio sul film.

I gatti-demoni.
Oggettivamente c’è poca chiarezza sulla figura di Daijin e, soprattutto, Sadaijin, il secondo gatto-demone che fa la guardia alla porta di Tokyo e che compare intorno a tre quarti di narrazione. Chi sono? Cosa vogliono veramente? Innanzitutto non possiamo catalogare Daijin come buono o cattivo; come la tradizione nipponica ci insegna, le divinità non hanno necessariamente una divisione manichea tra buono e cattivo, anzi spesso ricoprono tutto lo spettro delle aree grigie che ci sono in mezzo. Se volessimo usare un termine caro a chi gioca di ruolo con AD&D, potrei definire Daijin un essere caotico neutrale: sembra bizzoso e dispettoso, ma è carinissimo, persegue i suoi scopi - qualunque essi siano - incurante delle conseguenze e, nonostante tutto, gira per il Giappone guidando Suzume da una porta all’altra, come se volesse metterla alla prova. Forse lo fa per un tornaconto personale (più volte afferma di volere l’amore della ragazza), o forse lo fa proprio per amore di Suzume, spingendola oltre i suoi limiti. In quest’ottica Daijin è in realtà una parte fondamentale del percorso di crescita che la ragazza intraprende. Il demone una cosa sola voleva: smettere di fare il guardiano (infatti scappa via non appena la ragazza lo libera inavvertitamente) e ricevere amore da Suzume stessa. Se poi combina disastri, beh, quella è solo una irrilevante conseguenza del suo desiderio. Quando il demone non si sente accettato diventa grigio, magro, brutto e con gli occhi colmi di odio; ma quando Suzume lo abbraccia, ecco che ritorna bianco, cotonato, sorridente e miagolante. Saidaijin, che secondo il principio dello Yin & Yang è nero quasi a contrapporsi a Daijin, è più grande e più forte; in più è in grado di trasformarsi in un essere ancora più grande che richiama fin troppo palesemente la Maschera Bianca che compare in Ushio & Tora (d’altronde entrambe le opere vanno a pescare nella stessa mitologia). Non sappiamo in realtà chi lo abbia liberato dalla condizione di pietra-sigillo (una velocissima sequenza sembra suggerire fosse stato addirittura il nonno di Souta in passato - ma è solo una mia supposizione) e, tanto per aggiungere un po’ di pepe, Sadaijin sembra addirittura più malvagio, tanto che è sotto il suo influsso che la zia Tamaki vomita addosso a Suzume parole colme di frustrazione, risentimento, accusa per quello che lei ora è a causa della nipote, e per quello a cui ha dovuto rinunciare per troppo amore. E di fronte a questo sfogo così duro, doloroso ma aperto, la ragazza, ormai adolescente e in aperta ribellione, rivendica una propria libertà, urlando alla zia che in fondo quella è stata una sua scelta di cui non ha alcuna colpa. Ecco, questa sequenza per me è una delle più belle del film perché ha messo a nudo due persone reali, e le ha ulteriormente avvicinate. Cosa spinga Sadaijin ad agire in questo modo non ci è però noto. Ma quello che possiamo affermare è che Daijin e Sadaijin sono un mezzo grazie al quale Suzume compie un enorme balzo in avanti nel suo percorso di crescita. Che però non può definirsi compiuto se prima non scende a patti con la straziante sensazione di abbandono dovuto alla perdita della madre da bambina.

Pioggia... poteva forse mancare?


L’elaborazione del lutto
Il film Suzume non è quindi una vera storia d’amore come lo è stato Your Name o Weathering with You; la relazione con Souta, l’affrettato e per me troppo raffazzonato colpo di fulmine per il ragazzo è solo un pretesto per muovere gli ingranaggi. Suzume è sì una storia del genere coming-of-age, è sì un road-movie, ma è principalmente un racconto dolce sulla elaborazione del lutto. Le sequenze oniriche in cui la ragazza crede di parlare con la mamma morta durante il terremoto del 2011 chiudono il loro cerchio durante il confronto finale dove scopriamo che la persona che parla alla piccola di quattro anni non è che la Suzume diciassettenne di “oggi” che parla alla se stessa di “ieri”. È solo in questo momento allegorico che la protagonista scende a patti con il passato, e tutto si aggiusta come dovrebbe essere nel più scontato ma voluto dei lieto fine. Mai una volta ho avvertito il senso di pericolo durante gli scontri con i vermi rossi, mai una volta ho dubitato della riuscita del viaggio di Suzume; quello che a prima vista potrebbe essere visto come il più banale dei lieto fine, se lo vediamo nell’ottica del messaggio che Shinkai vuole lanciare ai suoi concittadini, tutto secondo me cambia di prospettiva. È il Giappone che, pur rispettando e venerando il proprio passato, deve andare avanti pensando al presente e al futuro. Il lieto fine è quindi un messaggio di speranza col quale mi trovo totalmente d’accordo nonostante, a livello più superficiale, avrei preferito una conclusione magari non tragica ma certamente più dark, più d’effetto che non credo sarebbe stata accettata con altrettanto entusiasmo dall'orgoglioso popolo giapponese. Purtroppo questo è lo scotto che devi pagare quando finisci col fare un prodotto mainstream: non dipendi più da te stesso e dalla tua volontà di essere Autore con la A maiuscola, ma ti adegui a quello che gli altri si aspettano da te. 

Alla luce di quanto ho esposto in precedenza, c’è poco da aggiungere alle considerazioni sul vero finale, perché quello che interessava a me era la fine del percorso di crescita di Suzume, ma non posso fare a meno di rilanciare con questa affermazione roboante: di cosa sarebbe successo tra lei e Souta non mi importava un beneamato fico secco. Il finale è però quello che serve per chiudere i capitoli riguardanti i due gatti-demone e la visione dell’aldilà: ebbene sì, tutto è collegato, tutto ha un senso. Suzume, per venire a patti con sé stessa, deve tornare nel posto dove tutto era cominciato, la porta che doveva aver varcato quando era piccola dopo la perdita della madre. Ed è lì che Daijin la condurrà, a conclusione del viaggio. Una tappa forzata prima dell'arrivo sarà l'inevitabile scontro finale con un super-verme di fumo, e lei potrà farlo grazie all'aiuto di Souta e dei due spiriti guardiani. È all'apice della grande battaglia che avviene il momento catartico e rivelatore; Suzume compie altri passi nel mondo dell’aldilà e finalmente incontra la se stessa di quattro anni in lacrime, incapace di accettare la morte della madre. Per rincuorarla le dona la sedia a tre gambe, consigliando di tenerla stretta: sarà questo ricordo della mamma a darle la forza di andare avanti. Risolta la grande crisi, Suzume e Souta tornano nel mondo reale e insieme alla zia Tamaki e a Serizawa compiono il viaggio a ritroso; a Tokyo i due ragazzi si separano con la promessa di incontrarsi nuovamente un giorno. Mesi dopo, nel villaggio della prefettura di Miyazaki la stessa Suzume in bicicletta scorge in lontananza un ragazzo: toh! È Souta, che è tornato da lei… questa volta, forse, definitivamente.

Come è facile desumere dal racconto, in Suzume la narrazione ha una struttura molto più circolare delle opere precedenti. Apparentemente è stato fatto un giro completo fino quasi a tornare al punto di partenza: è come se la storia della ragazza avesse seguito di pari passo l’andamento del viaggio, andata e ritorno. Però, riflettiamoci bene: un viaggio non è quasi mai fine a se stesso, è spesso un’occasione per crescere, migliorare, cambiare. Durante la grande avventura Suzume ha raggiunto uno scopo che l’ha portata ad accettarsi, trovare il suo posto nel mondo, trovare - forse - il grande amore. Se per farlo ha dovuto salvare il Giappone, beh, dai: è un dettaglio trascurabile. O no?

FINE SPOILER

Road movie, riflessi e lens flare!


L’edizione italiana
A differenza dei film precedenti, con Suzume c’è stato un enorme balzo in avanti per quanto riguarda la distribuzione internazionale: ad accaparrarsi i diritti per gli USA e Asia è stata Crunchyroll mentre per l’Europa si è scomodata Sony Pictures (comunque proprietaria di Crunchyroll) insieme alla tedesca Wild Bunch. In Italia Suzume è stato distribuito nei cinema da Sony Pictures Entertainment Italia a partire dal 27 aprile 2023. Niente più eventi di pochi giorni come il Nexo Digital, ma una distribuzione cinematografica a tutti gli effetti. Secondo Wikipedia, ha incassato 630.000 € staccando circa 85.000 biglietti. Un risultato discretto, tenendo presente quanto sia considerato di nicchia il cinema d’animazione giapponese qui in Italia. Ma ancora insufficiente, soprattutto alla luce di quanto ottenuto dal film di Miyazaki, "Il ragazzo e l'airone" che, sfruttando l'effetto traino dell'Oscar, ha registrato un incasso clamoroso di quasi 7.000.000 €, record assoluto per un film d'animazione giapponese nei cinema italiani. Buono il doppiaggio e l’adattamento italiano a cura della Dubbing Brothers International Italia. Dialoghi di Gian Paolo Gasperi con direzione del doppiaggio di Alessia Maria Bianchi. Voci di Chiara Fabiano (Suzume), Manuel Meli (Souta), Francesca Manicone (Tamaki). (info tratte da Antoniogenna.net - Il mondo dei doppiatori).

Conclusioni
Dai, coraggio, chiedetemelo: “Ti è piaciuto Suzume?”

Sì, perdiana, sì, tantissimo!

Credo e spero si noti, tanto che ho scritto un papiro mediamente più lungo del solito. Sapete cosa vuol dire questa cosa? Che il film mi ha colpito particolarmente. L’ha fatto a più livelli, dal più superficiale (quello estetico) al messaggio e alla storia della protagonista, più profondo e intimista. Con me, stavolta, Shinkai ha fatto centro. Purtroppo resta un film ancora imperfetto e poco bilanciato in alcune parti, troppo semplicistico in altre, poco profondo in definitiva - ma che ha saputo regalarmi degli spunti su cui riflettere. Ritengo Suzume assolutamente superiore a Weathering with you e quasi alla pari di Your Name. Questo perché a mio avviso stavolta Shinkai non si è preso gioco dello spettatore, ma l’ha accompagnato lungo un viaggio spettacolare, vivido. Probabilmente più freddo e didascalico del suo più grande successo, ma che val la pena di guardare almeno una volta.

Chiudo esternando un mio timore: dubito che mai avverrà la Grande Svolta, perché temo che Makoto Shinkai abbia raggiunto il limite oltre il quale difficilmente si spingerà. Dato che sono nato per essere smentito, lo attenderò alla prossima prova, si presume tra tre-quattro anni, e lì vedremo se la mia sarà una profezia o se avrò ottenuto lo stesso risultato di quando compilavo la schedina del Totocalcio (spoiler: mai fatto nemmeno un dodici, altro che tredici…)

Mettetevi comodi prima di leggere il pagellone!

IMPORTANTE: Una versione più lunga di questa recensione sarà presente in un e-book di prossima pubblicazione, che raccoglie l'intera mia monografia su Makoto Shinkai, con modifiche, aggiornamenti e nuovi paragrafi che completano l'opera. Restate sintonizzati!

 

Il Pagellone!
Così è deciso!
Trama: 7
Storia semplice ma d’effetto. Fa presa, i personaggi sono ben caratterizzati (al netto di quanto già indicato in sede di recensione), ma ci sono dei punti nella sceneggiatura che proprio non mi sono piaciuti, ne cito due: la zia Tamaki che trova Suzume nel mezzo di Tokyo proprio in quel momento. Poco credibile, il caso NON può essere usato come scusa per muovere la trama. Il secondo è la comparsa di Sadaijin, che non viene spiegata: chi l’ha liberato dal ruolo di sigillo di guardiano della porta? Una freddezza di fondo e la solita superficialità non gli permetterebbero di raggiungere lo stesso punteggio di Your Name, ma voglio comunque premiare una raggiunta maturità del messaggio di fondo lanciato dal regista.
Musiche: 7,5
Segnalo il ritorno dei Radwimps alla terza collaborazione con Shinkai, questa volta con l’ausilio del compositore Kazuma Jinnouchi e con la voce della cantante Toaka per la canzone principale dal titolo… Suzume. Bella la colonna sonora, con alcuni omaggi a opere precedenti come il già citato Kiki Delivery Service o la sigla Yume no naka e di Le situazioni di Lui & Lei (Kareshi kanojo no jijō, 1999)
Regia: 9
Per quanto mi riguarda, Suzume si riprende rispetto a Weathering with you e torna alle vette di Your Name, senza superarle. Disegni strepitosi con l’ausilio di una CGI d’effetto e ben amalgamata (tranne un paio di punti con i vermi rossi su Tokyo, davvero un pugno nell’occhio). I personaggi hanno avuto un’animazione senz’altro migliore ma anche in questo caso il livello dello Studio Ghibli è a mio avviso lontano.
Ritmo: 8
Tra i film della Trilogia della Catastrofe, Suzume è sicuramente quello col ritmo più sostenuto, e non avrebbe potuto essere altrimenti data la sua natura ibrida di road-movie e avventura fantastica. Poche le pause, dettate più dal momento drammatico.
Violenza: 4
C’è poco da dire, si parla di morte ma senza mostrarla praticamente mai. Anche perché il tono generale dell’opera resta leggero.
Humour: 6,5
Incredibile a dirsi, nonostante il tema dell’elaborazione del lutto è un film fondamentalmente leggero con alcune gag indovinate, tutte concentrate sul rapporto Suzume-Souta in forma di sedia.
XXX: 1
Shinkai ci insegna a raccontare e mostrare una bella storia senza bisogno di inutile fan service.
Voto Globale: 8
Meglio di Weathering with you, appena sotto Your Name. Perché? Suzume è un film indovinato, assolutamente, ma pecca di eccessiva superficialità e, soprattutto, non entra nel cuore così come invece era successo con Your Name. Un’ottima prova in ogni caso, che merita di essere vista anche solo per vedere come gli anime possano essere considerati qualcosa di meglio di un settore di nicchia. In Italia siamo purtroppo lontanissimi ma nella stagione 2022-2023 ci sono tre film che a mio avviso meritano le luci della ribalta: Suzume, The Last Slam Dunk e Il ragazzo e l’airone. Quest’ultimo, guarda caso, di Hayao Miyazaki per lo Studio Ghibli. Opere secondo me superiori e lontane dai classici shonen che vanno per la maggiore, tra cui Demon Slayer che ha sbaragliato letteralmente ogni record di botteghino per un film anime a livello mondiale.

giovedì 21 aprile 2022

[Speciale] [Extra] Gian Piero Aschieri - Ti ricordi chi eravamo? | Romanzo (2022)



Quanti di noi hanno nel cassetto un romanzo, una storia, un racconto? Ebbene sì, ci sono anch'io e negli ultimi mesi ho deciso di rispolverarne uno lasciato lì da anni, in attesa di trovare il coraggio di riprenderlo, correggerlo, sottoporlo a persone capaci e fidate, correggerlo nuovamente grazie ai loro suggerimenti e decidere di proporlo in self-publishing tramite la piattaforma di Amazon. Seguendo il link pubblicato a fine articolo sarà possibile andare alla pagina del romanzo e decidere di acquistare la versione ebook o quella cartacea.
È un romanzo breve (sulle 200 pagine circa) o, se preferite, racconto lungo; chi un po' ha imparato a conoscermi tramite le pagine sconclusionate di questo blog, potrà scoprire che la storia ha un registro molto diverso dai temi qui trattati. Ebbene, sì: non è un romanzo fracassone con esplosioni e risse con cartoni in faccia, ma è un racconto intimista e introspettivo.
Il protagonista si chiama Giovanni ed è un po' "uno di noi": superata la trentina ancora non sa quale direzione dare alla propria vita e, proprio mentre deve decidere tra il continuare con il solito anonimo tran tran quotidiano e il seguire il sogno di una vita (la scrittura), riceve la telefonata di un vecchio amico che non sentiva da anni. Quella voce che temeva di aver perso nella nebbia dei ricordi lo risveglia dal torpore. Matteo, questo è il nome del suo amico, lo invita a una cena di classe, un raduno dei vecchi compagni del liceo. Titubante e non propriamente a suo agio, Giovanni accetta e decide di tornare a Milano, la sua città natale da cui si era allontanato molto tempo prima.
Che effetto farà rivedere persone ora sconosciute ma che un tempo avevano condiviso una fetta così importante della sua vita?
Giovanni non sa rispondere a questa domanda, è diviso tra il timore di scoprire dei perfetti sconosciuti e la curiosità di sapere cosa ne è stata delle loro vite.
Ma la voce di Matteo ha risvegliato anche una serie di altri dolorosi ricordi legati a Irene, una enigmatica ragazza di quel periodo così magico, eccitante, travolgente. Ci sarà anche lei? E se sì, che effetto sarà incontrarla? Con mille dubbi, accompagnato da nuovi ricordi che diventano sempre meno disincantati e sempre più realistici e inquietanti, Giovanni parte alla ricerca di se stesso e nel corso della cena farà scoperte sorprendenti a causa delle quali sarà infine costretto a fronteggiare il suo passato per salvare la propria vita.
Cosa troverà? Chi troverà?

Questo racconto si sviluppa su due piani temporali diversi, il presente dei primi anni Duemila e il passato nel pieno degli anni Ottanta, vissuti con gli occhi di un adolescente "normale" che si avventura nei meandri di una relazione complicata con Irene mentre attorno a lui sfrecciano le esistenze dell'amico di una vita Matteo, del pazzo esuberante Pablo, della timida Simona e di tutti gli altri compagni di classe del liceo, quelli che tutti noi abbiamo avuto la fortuna di conoscere da adolescenti.

Titolo: Ti ricordi chi eravamo?
Autore: Gian Piero Aschieri
Disegno di copertina: Flavia Flàme -> Flavia Flàme - Disegni e altro ancora
Progetto grafico: Marco Delmiglio
Genere: drammatico, slice of life, romanzo di crescita

Una nota sulla copertina: il bellissimo disegno è stato eseguito da Flavia, vi consiglio di visitare la sua pagina Facebook dove pubblica le sue ultime creazioni. Fidatevi, ne vale davvero la pena! Ringrazio anche l'amico Marco Delmiglio per il progetto grafico fondamentale per dare alla copertina un aspetto professionale.



Io spero che il romanzo possa piacervi, ci ho messo tanto di me stesso. E se vi piacerà, vi chiedo di condividerlo tra amici e conoscenti, spargete la voce, fate sì che possa raggiungere quante più persone possibili!
Infine un'ultima raccomandazione: lasciate una recensione sulla pagina del libro su Amazon, sarà un valido strumento per la sua diffusione ;-)

Last but not least: continuate a seguirmi perché un secondo romanzo è in cantiere. Non rivelerò nulla, se non che sarà una space opera fantascientifica - proprio tutt'altro genere e sicuramente più sulle corde di questo blog, vero? Stay tuned!

giovedì 16 dicembre 2021

Il giorno sbagliato - Unhinged (2020) | Recensione

Il giorno sbagliato - Unhinged
Voto Imdb: 6,00

Titolo Originale:Unhinged
Anno:2020
Genere:Thriller
Nazione:Stati Uniti
Regista:Derrick Borte
Cast:Russell Crowe, Caren Pistorius, Gabriel Bateman


"Chiedi scusa!"

Come disse Gino Bartali: “L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare!”
Fonti non confermate mi dicono che avesse pronunciato queste parole dopo aver visto Il giorno sbagliato - Unhinged. Giuro!
Beh, in attesa di scoprire se i servizi segreti deviati ci hanno preso o se mi hanno passato una notizia infondata corredata di babbi da mangiare in un autogrill discutendo di rinascimento in stati dittatoriali, diciamo che sono comunque parole che ben si adattano a questo film. Unhinged è tutto sbagliato, dall’inizio alla fine, e la cosa mi spiace moltissimo perché è coinvolto un attore che ho sempre apprezzato, Russell Crowe.
Un giorno sbagliato può capitare a chiunque, intendiamoci.
Allo sfigato che imbrocca la fila giusta nel giorno in cui distribuivano la sfiga.
A Capitan Uncino quando si fa il bidet con la mano sbagliata.
A Luca Giurato quando azzecca un congiuntivo.
A chi si imbatte in questo film e in questa recensione.
Vai di trama! 
No, ma facciamo esplodere una casa, cosa sarà mai?
Tom Cooper (Russell Crowe) è decisamente incazzato e disturbato. Un bel giorno impugna un martello e una tanica di benzina, va a casa dell’ex-moglie e compie un massacro, uccidendo lei e il nuovo fidanzato. Non contento, incendia la casa e inizia a girare indisturbato per la città. Non lo vede nessuno (!), pertanto può deambulare per la cittadina come se niente fosse successo; a fare cosa, non si sa. E poi c’è la protagonista Rachel (Caren Pistorius), cronica ritardataria, piena di problemi personali e che sta iniziando le pratiche di divorzio dal marito. Ha un figlio adolescemo a metà tra il saputello irritante e il bimbominkia nerd in perenne modalità non-rompermi-le-palle. Quella stessa mattina, imbottigliata nel traffico e alle prese con una telefonata di lavoro in cui minacciano di licenziarla perché ha stancato con i suoi ritardi e, tra l’altro, in preda all’ansia perché sta accompagnando il figlio a scuola con un altrettanto ovvio ritardo mostruoso, Rachel ha l’ardire di suonare il clacson inveendo proprio contro Tom Cooper, il quale le ordina di chiedergli scusa, cosa che lui, con affettata e dilagante gentilezza, ha già provveduto a fare. E lei come risponde?
 
Lo insulta con tanto di dito medio. 
La protagonista col bimbominkia
Chi non lo farebbe in un momento di stress nel mezzo del traffico cittadino? È un atto catartico, lo faccio pure io stando ben attento a tenere i finestrini chiusi perché se è vero che gli altri guidatori sono miei nemici, è altrettanto vero che gli insulti che lancio loro non è così fondamentale che vengano davvero recepiti, è solo uno sfogo. Anche se ogni tanto mi indico la bocca urlando “LO CAPISCI IL LABIALE, STRONZO? EH? EH?” Insomma, non prendiamoci in giro, l’arte italica dell’insulto al volante è sacra e intoccabile, è un classico italian-state-of-mind come il “Ma vaffanculo” al casello automatico che ti dice “Arrivederci!”.
 
Il problema è che in Unhinged non siamo in Italia e che Tom Cooper non è un casello automatico, è proprio uno stronzo psicopatico. E non la prende affatto bene, anzi, a dirla tutta in lui scatta la follia omicida, tanto ha appena accoppato l’ex-moglie, cos’altro ha da perdere?: Rachel - e tutti quelli che la circondano - devono morire, semplice e lapalissiano. Inizia una corsa serrata in cui la tizia verrà perseguitata dallo psicopatico, il quale la seguirà con una non indifferente scia di sangue. 
Lo spunto iniziale, che richiama in qualche modo l’iconico Un giorno di ordinaria follia con Michael Douglas con una spruzzatina di Criminal Minds e di Duel, è invero interessante e il ritmo è serrato con poche pause tra una scena e l’altra. L’interpretazione di Russell Crowe torna ad essere convincente nella parte negativissima del villain ma… ma… ecco il grosso “ma”. 
La sceneggiatura. Ve lo dico col cuore: è scritta davvero con una parte anatomica piuttosto morbida che non comprende le mani e nemmeno i piedi. 
Due le criticità più evidenti:
  1. il personaggio di Rachel è particolarmente odioso e insignificante, tanto che risulta impossibile immedesimarsi e prenderne le difese. Che ce la faccia o non ce la faccia, alla fine mi è diventato del tutto irrilevante. Posso capire che abbiano voluto rappresentarla come “una di noi”, con mille problemi irrisolti, ma è nelle scelte che fa che crolla ogni empatia nei suoi confronti. Vedi punto successivo.
  2. la credibilità degli eventi narrati è prossima allo zero. Rachel compie una serie impressionante di decisioni sbagliate che rendono la sospensione dell’incredulità davvero difficile da digerire. Per non parlare della sequela inenarrabile di cazzatone assolutamente poco plausibili infilate a forza come quando cerchi di chiudere il trolley prima di salire su un volo Ryanair. O mentre cerchi di chiudere questa cappelliera:

 

Cucù, il cellulare dov'è?
Scusatemi, torniamo al film. Qualche esempio illuminante? Tom Cooper, senza che nessuno alle telecamere di sicurezza se ne accorga e senza che noi lo vediamo perché lo capiremo da una scena successiva, va nella piazzola di un benzinaio, ruba il cellulare dall’auto di Rachel e lo scambia con il suo. A pensarci bene, già di per sé quest’atto è una stronzata galattica, ma diamogli il beneficio del dubbio. Poi, mentre è alla guida del suo pick-up, Tom inizia a chiamarla, a fare foto per inquietarla meglio e, UDITE UDITE, a fare transazioni bancarie e finanziarie sul conto di lei (GIURO!). Il tutto senza aver dovuto sbloccare il telefonino o superare le misure di sicurezza di cui anche il più scrauso degli smartphone del 2020 è senz’altro dotato. E sapete una cosa? Lei che ha in mano il cellulare del pazzo, potrebbe fare una cosa semplicissima. Andare dalla polizia, dire loro: “Questo psicopatico mi sta inseguendo, mi è venuto addosso con il macchinone (GUARDA QUI CHE BOTTA!) e ha scambiato il mio cellulare con il suo, qui c’è tutto l’elenco delle chiamate, così potete risalire al suo nome, rintracciarlo SUBITO E FARLA FINITA!” No. Lei scappa per la città. E Tom Cooper continua imperterrito nella sua follia distruttiva. Legge il calendario di appuntamenti che la ritardataria cronica minuziosamente tiene nel cellulare, e… ah! Scusate, qui mi tocca aprire una parentesi: lo trovate plausibile che una persona così disorganizzata come la protagonista si segni tutto-tutto-tutto sul calendario dello smartphone? Dicevo, Tom Cooper legge del prossimo appuntamento e va in un ristorante a scambiare due convenevoli con il tizio che avrebbe dovuto parlare con Rachel. Poi lo uccide davanti a tutti e si allontana dal ristorante senza che nessuno lo insegua o urli dal terrore, anzi qualcuno lo riprende col cellulare invece di chiamare gli sbirri, ah che bella critica al mondo di oggi. Succede così: prima gli sfascia una tazza sul naso, poi gli sbatte la fronte sul bordo del tavolo tenendolo per il cravattino e infine lo infilza al collo con un coltello per spalmare il burro. Tutto normale, giusto? Poi piglia e se ne va, sale sulla macchina e continua a seminare morte e a inseguire Rachel. La scena è di un surreale assurdo, tanto che in alcuni punti, mentre Tom parla con Rachel e mentre uccide il tizio già insanguinato, si vede sullo sfondo la gente che si fa gli affari suoi come se niente fosse.
Vogliamo anche parlare del fatto che quando salgono sulla macchina si mettono sempre la cintura rispettosi del codice stradale, ma poi Tom e Rachel parlano al cellulare guidando senza nemmeno mettere il vivavoce? Diseducativissimo! Io chiamerei il MOIGE e il Codacons, tutto ciò è inaccettabile!
Questa mano po' esse piuma o fero...
 
No, in un film del 2020 non devo aspettarmi queste cazzate, non esiste proprio! Io sono il primo ad ignorare la credibilità delle cose se inserite in un contesto fracassone dove c’è la gara a inserire la smargiassata più tamarra (chi ha detto Fast & Furious? Cuoricini sparsi). Ma qui, dove tutto è serio, dove c’è appena sfiorato il lodevole tentativo di inserire una trama con il super cattivo sporco maschilista violento e retrogrado che ce l’ha a morte con gli avvocati divorzisti americani, mi aspetto una maggiore attenzione ai dettagli. Se da un lato l’interpretazione di Russell Crowe si salva - è perfino ingrassato per entrare meglio nella parte, penso che lo farei pure io con sommo gaudio, intendiamoci - e comunque sappiate che non è tutta panza, la sua, perché ha usato una protesi per accentuare la ciccia, dicevo dall’altra parte ben poco altro si salva. Il ritmo è serrato, è vero, ma sono sequenze senza un minimo senso logico. Lo stesso genere di film non è ben inquadrabile: è un thriller? È uno slasher? È una denuncia al sistema divorzista americano? Secondo me è un desolante insieme di tanti “vorrei ma non posso” senza però riuscire a eccellere in nessuno dei generi a cui si è accostato.
"Scusi ho una domanda, può rispondere?"
Giusto per aggiungere una critica non richiesta, parliamo del titolo italiano. Spesso le logiche dei distributori italiani sono imperscrutabili: talvolta lasciano il titolo originale, talvolta lo cambiano con altri termini inglesi (perché?), a volte usano un titolo italiano semplice, altre volte ancora si inventano titoli che non c’entrano una mazza, in qualche raro caso hanno addirittura affossato un film causa titolo infelice (ogni riferimento a “Eternal sunshine of the spotless mind” / “Se mi lasci ti cancello” è puramente casuale). In questo caso la versione italiana ha il titolo originale “Unhinged”, che qui possiamo tradurre come “lo squilibrato”, “il pazzo”, e una frase italiana: “Il giorno sbagliato”. Non posso definirlo un errore, ma chi l’ha scelto ha (deliberatamente o meno non si sa) spostato il focus; “lo squilibrato” del titolo originale è l’antagonista interpretato da Russell Crowe che, di fatto, è il vero protagonista della storia; mentre “il giorno sbagliato” è riferito a quello della vittima di turno, colei che ha la sventura di incontrare Tom Cooper. E, implicitamente, è riferito anche a noi che abbiamo visto il film, mi pare ovvio.
In conclusione, il film parte bene, è pure un discreto low-budget secondo i canoni hollywoodiani, ma naufraga a causa della scarsa plausibilità degli eventi narrati. Ed è un peccato, perché ha la giusta cattiveria, alcune scene sono perfino discretamente forti (non è un horror, sto relativizzando), ma gli manca l’intera sovrastruttura che lo sorregga solidamente. Incompiuto e poco plausibile. Russell, perché l’hai fatto?
 
Il pick-up
 


Il Pagellone!
Così è deciso!
Trama: 4
Come spiegato nella recensione, la sceneggiatura è il vero punto debole del film. Lo spunto iniziale era decisamente interessante, ma lo sviluppo successivo lo ha mestamente affossato.
Musiche: 6
La colonna sonora non ha nulla di memorabile. MA! Segnalo una cover di “Don’t fear the Reaper” eseguita dai Keep Shelly In Athens, duo indie greco che eccelle nella childwave, un electropop rallentato spruzzato di effetto nostalgia per gli anni Ottanta. Di primo acchito mi ha fatto cagarissimo (scusate la spocchia da boomer) ma nei riascolti successivi l’ho apprezzata.
Regia: 6
Il regista Derrick Borte viene dalla scena indie, di per sé non è nemmeno un male perché alcune scene, soprattutto quelle più forti, sono ben fatte. L’impressione è che avrebbe potuto osare di più, invece si è limitato a fare il compitino. La poca attenzione nel montaggio ha fatto il resto.
Ritmo: 7
Se c’è una cosa che non manca nel film è il ritmo. Pur costellato da cazzatone mirabolanti, la tensione non scende mai, fino ai titoli di coda. È sicuramente il maggior pregio di Unhinged.
Violenza: 6,5
Certe scene sembrano tratte da uno slasher ma non posso dire altro per non spoilerare troppo.
Humour: 0
Totalmente assente.
XXX: 0
Nulla da segnalare.
Voto Globale:
5
Per me il film è bocciato. Intendiamoci: la pagnotta la porta a casa dignitosamente, ma il suo voler essere troppe cose senza mai davvero centrare il punto in ciascuno di esse è un grosso limite. Se poi aggiungiamo che la sceneggiatura è davvero pietosa perché inserisce pezzi assurdi e privi di senso in un contesto serio e con una sua logica interna, ecco, per me l’equilibrio non regge al punto da lasciarmi un po’ basito, un po’ insoddisfatto… senza eccellere in nessuno dei casi, ovviamente.



























domenica 21 febbraio 2021

Showgirls (1995) | Recensione

Showgirls
Voto Imdb: 4,9
Titolo Originale:Showgirls
Anno:1995
Genere:Drammatico, Erotico
Nazione:Francia, Stati Uniti
Regista:Paul Verhoeven
Cast:Elizabeth Berkley, Gina Gershon, Kyle MacLachlan

Nessuno ce la fa contro Nomi Malone! (Elizabeth Berkley)

Prologo

Scena 1
Studio oculistico.
“Prego, signor Verhoeven, si accomodi.” dice il dottore. “Perché è qui?”
Il regista porta con sé una scatola che sta reggendo a fatica da quanto è pesante e sul coperchio c’è un’etichetta con la scritta “Showgirls”.
“Oh.” il dottore ammicca. “Calo della vista dopo quattro mesi di riprese?”
“No.” Paul Verhoeven si accomoda nervosamente e appoggia la scatola sul tavolo, poi scosta leggermente l’apertura per permettere al dottore di sbirciare dentro.
“Oh, mio Dio.” l’uomo in camice si ritrae sconvolto portandosi una mano sulla bocca. “È ENORME. Mai visto niente di simile!”
“Mi deve spiegare.” inizia Paul Verhoeven affranto. “Perché quando faccio una stronzata così, lacrimo sempre?”
“Lei non ha bisogno di un oculista, signor Verhoeven. È sufficiente fare film decenti, vedrà che non sentirà più dolore e le lacrime spariranno.”

Scena 2
Registrazione del David Letterman Show. In studio: Kyle MacLachlan, Letterman e il Giampy.
“Raccontaci, Kyle.” dice Dave. “È vero che non eri presente alla prima di Showgirls?”
L’attore si stropiccia le mani a disagio. “No, c’ero. Mi sono seduto e ho sofferto per tutte le due ore.”
Letterman sorride. “Anche noi. Anche noi, Kyle.”
Risate del pubblico. Solo una persona non ride, è il Giampy, che osserva Kyle con sguardo acuto e penetrante. “Kyle, amico mio. Mentre giravi il film, non ti è balenato il velato sospetto che stesse venendo fuori una verammerda?”
Boato del pubblico, standing ovation, Letterman addirittura sale in piedi sulla scrivania e strappa i fogli del copione. Kyle abbozza, sorride a denti stretti e annuisce. “L’ho capito dalla prima scena. È tutto sbagliato, il film, il regista, il cast. Tutto.”

Ed ecco la recensione di questo film immondo!

Oggi parliamo del concetto di FALLIMENTO.
Con Showgirls assistiamo al fallimento:
  • del film, floppone al botteghino;
  • di Elizabeth Berkley, l’attrice principale;
  • della Carolco Pictures, casa di produzione del film;
  • il mio fallimento.
Partiamo dall’ultimo punto, il meno interessante, che spiega perché diavolo sto parlando di questo filmaccio. Ebbene, il merito (o la colpa) è di Paola, admin del gruppo Il Marsigliano Reggiano la quale, dopo aver letto qualche mia recensione, mi apostrofa con: “Davvero non hai mai visto Showgirls? Guardalo. È brutto. VERAMENTE BRUTTO. Guardalo, recensiscilo e non te ne pentirai.”
Ora: sul pentimento ho qualche dubbio, ma se qualcuno mi lancia il guano di sfida [sic] io non mi sottraggo. MAI. Ho guardato Showgirls e fin da subito sono stato avvolto da una spessa e imperforabile cappa di mestizia. Showgirls non è un film brutto, è… è… oltre. È un’operazione che non ha il minimo senso, che porta sulla scena diversi personaggi odiosissimi che fanno cose senza senso, in una successione temporale causa-effetto senza senso, inutilmente allungato (DUE ORE E DIECI) da fan service senza senso. In poche parole: una verammerda.
Perché parlo di mio fallimento? La mestizia è talmente tanta che mi risulta perfino difficile riuscire a tirare fuori una recensione decente di questo obbrobrio. Ma, ripeto, il guano di sfida è stato lanciato e io l’ho raccolto.

Notare come impugna il coltellino...
Per meglio inquadrare il discorso, vorrei porre l’attenzione sulla trama perché di tutte le cose senza senso nel film, quest’ultima occupa il primo posto di prepotenza. È ovvio che l’allupato guarderà Showgirls per altri motivi, ma proviamo un attimo ad astrarci e a guardarlo con occhio distaccato, ci renderemo conto di quante perle nascoste ci siano nella risibile sceneggiatura.
Nomi Malone (Elizabeth Berkley) ha, come tutti, qualcosa da nascondere. Sta facendo autostop in direzione Las Vegas e viene raccattata dal classico bulletto sudista sul classico pickup americano. “Come ti chiami?” le chiede lui. In tutta risposta, la tipa estrae un coltellino a serramanico e fa sbandare l’auto, rischiando una collisione che avrebbe posto fine al film prima ancora degli inesistenti titoli di testa: credetemi, forse sarebbe stato meglio così. Riportata la calma nell’auto, il tizio - invece di buttare la psicopatica giù da una scarpata - le rifà la stessa domanda: “Come ti chiami?”
“Nomi”, risponde lei.
“Che nome del...”
“Mia mamma è italiana, ecco perché mi chiamo così.”
Ho messo in pausa e ho iniziato a ridere male. Nomi. Avesse detto Mona, avrei riso lo stesso anche se per altri motivi. Ma trovatemi una cazzo di Nomi qui in Italia e vi pago una cena. Al Burger King, ché non si sa mai, io sono nato per essere smentito.
Quasi bacio (senza senso)
Comunque il simpatico duo arriva a Las Vegas e l’astuta come una faina Nomi si accorge che il bulletto è un ladruncolo da strapazzo che se l’è svignata portandosi via la sua valigia. Disperata ed incazzata come un automobilista bloccato da un gruppone di ciclisti della domenica che non riescono a pedalare in fila indiana, Nomi inizia a prendere a pugni un’auto parcheggiata di fianco. Proprio davanti alla proprietaria. Costei si chiama Molly (Gina Ravera) e deve essere davvero poco furba giacché, invece di chiamare la polizia e fare arrestare Nomi per vandalismo, la abbraccia e fa scattare di botto un’intensa inquadratura che trasuda tensione sessuale senza senso da ogni fotogramma. Le due si guardano e… Nomi diventa amica per la pelle di Molly, che la ospita a casa sua. Dai, sì, diventiamo amiche di quella che sta per sfasciarmi la macchina come se si trovasse nel bonus stage di Street Fighter II; mai vista prima, senza soldi e senza valigie, dai, raccattiamola e portiamola a casa mia, cosa ci sarà mai da temere nel Nevada?
Cristal (Gina Gershon)
Poi c’è un salto di 4 mesi, scopriamo che Molly fa la (s)costumista in un locale dalla dubbia moralità mentre Nomi viene presa come lap dancer e spogliarellista in un altro locale nonché tempio di perdizione per maschi arrapati e danarosi. D’altronde siamo a Las Vegas, giusto? Ed ecco che inizia la discesa nell’inferno di Nomi, la quale dimostra uno spiccato talento nel mostrare zizze e patonza a destra e sinistra, entrerà nelle grazie di Cristal (Gina Gershon), la DEA del locale Stardust, si innamora (forse) del manager interpretato da Kyle MacLachlan e, insomma, patapim e patapum assistiamo inermi ad un'impressionante carrellata di spogliarelli, tette, culi, patonze, ancora tette, gelosie, tradimenti, trombate improbabili in piscina, spettacoli pirotecnici assortiti di ogni tipo fino a planare leggiadri sulla scena rivelatrice dell’oscuro segreto di Nomi in cui ad essere stupiti non siamo noi spettatori, ma Nomi stessa che manco si ricorda più chi sia realmente.
Due ore e dieci di NULLA (se escludiamo le tette voluttuosamente esibite da ogni attrice di sesso femminile inquadrato nel film, ivi inclusa la matrona quasi sessantenne che fa da spalla comica), dove gli elementi di spicco sono i seguenti:

Quando dico incazzata...

  • espressione perennemente incazzata di Nomi. E quando non è incazzata, ha sempre la bocca aperta (no doppi sensi, please). E quando non fa nessuna delle due cose, esce di scena sbattendo la porta alle spalle. Sempre.
  • Due sottotrame assolutamente inutili e senza senso, quella del poeta rasta di stocazzo che ha scritto un musical ispirandosi a Nomi, lei quasi gliela dà per poi scoprire che suddetto cantautore l’ha fatto con altre tre ragazze; e quella delle unghie fighissime, cioè, qui solo se hai unghie fighissime puoi essere considerata degna di diventare la DEA dello Stardust. Sottotrama ad un certo punto sparita, annegata nell’acqua ragia.
  • tette e culi, ma non sono sicuro di averlo rimarcato a dovere.
  • Dialoghi scritti con la stessa parte anatomica di cui vediamo esempi in abbondanza, ovvero il culo.
Cristal e Nomi (credo. Non sono fisionomista)

"Uhm, per me sei un po' zoccola."
Così parlò Gina.
I problemi di questo film, è evidente da quanto ho or ora enunciato, sono diversi.
Gran parte delle colpe vanno alla sceneggiatura, che è una delle più imbarazzanti mai approvate da una major di primo livello. Non è solo un problema di trama, che non risulta credibile nemmeno dopo una sniffata di bicarbonato ricavato dalla citrosodina sminuzzata; è un problema proprio di scrittura e di dialoghi, completamente sopra le righe e inutilmente enfatici. Quelle che volevano essere battute sagaci e ad effetto, si risolvono in patetiche righe di vuoto pneumatico, dove spesso i personaggi fanno una cosa mentre la stanno negando a parole. Mi spiego meglio. Nomi e Cristal hanno un dialogo che dovrebbe essere carico di tensione ma che nella realtà è solo uno scambio di sciabolate morbide di sguardi languidi. Nel botta e risposta che nelle intenzioni avrebbe dovuto alzare la temperatura, infine Cristal dice a Nomi con voce arrochita: “Uhmmmm, per me sei un po’ zoccola.” La protagonista, incurante delle bocce mezze fuori, fa la boccuccia a culo di gallina e dice: “Chi? Io? Maddai!”
Cioè, le schermaglie fra le attrici si riducono a dialoghi di questo tipo, intervallati da coreografie che uno stambecco zoppo avrebbe eseguito meglio, e da baci simil-saffici che di erotico hanno solo l’herpes che le due si sono senz’altro trasmesse visto l’ambiente che frequentano.
Ci sono altre scene così brutte, così cringe, che meritano una citazione, vuoi per la scrittura, vuoi per la situazione assurda o imbarazzante a cui assistiamo con la mascella spalancata:
  • Nomi e Cristal, sempre loro, dialogano in un ristorante italiano apparentemente di lusso. Tra sguardi inutilmente lussuriosi, ammiccamenti e battute grevi sulle rispettive tette (!), le due iniziano a parlare di… cibo per cani che sarebbe più buono di non so cosa. Il tutto mentre Nomi violenta un barattolo di ketchup, facendogli fare una fine indegna. Ma… ma… il senso di tutto questo?
  • Prove di coreografia per il musical allo Stardust. Nomi fa quello che sa fare meglio: dimenarsi in modo disarticolato ma a quanto pare a tutti va bene così. Il top è quando prova un piegamento con mani e gambe appoggiate a terra, in posa stile tarantola, e il coreografo le urla in faccia “SPINGI SPINGI SPINGI SPINGI!”. Solo a me è venuto in mente l’imbarazzante paragone con una sala da parto? 
  • Nomi a più riprese si vanta del suo nuovo vestito VERACE (battuta resa meglio in originale, in cui storpia clamorosamente il nome in Ver-sa-syiiiie) e se ne sbatte quando la correggono. Ma quanto sei cretina? Ma li ascolti gli altri quando ti rivolgono la parola?
  • Nomi e Cristal (si è capito che il tasso di idiozia s’innalza pericolosamente quando le due donne sono in scena insieme?) provano una coreografia insieme. Nuova. MAI VISTA PRIMA NEMMENO IN PROVA. Ma è solo una bieca scusa per farcele vedere nuovamente avvinghiate, peccato non sappiano fare un passo decente. È più sensuale Renato Pozzetto con una rosa in bocca.
Le mirabolanti unghie



Spingi! Spingi! SPINGI! ("Thrust it!")

Coreografie? Sì, parliamone! Ridatemi Enzo Paolo Turchi!
Elizabeth Berkley non sa ballare.
Nemmeno Gina Gershon.
E forse neanche le vere ballerine scritturate per il film. Sembra di assistere ad un branco di facoceri che ruotano in mezzo al palco trasformato in una savana dove le primedonne si prendono a gomitate per diventare la DEA del locale. Dopo che una stessa coreografia è stata pure riciclata due volte, sono infine giunto a rivalutare Staying Alive, il che la dice lunga.

Showgirls vs Staying Alive
E qui scatta il primo confronto d’obbligo. I due film hanno in comune due cose: una storia di merda con personaggi da prendere a mazzate da quanto sono poco credibili e, appunto, i balletti. Showgirls ha una cosa che Staying Alive non ha: le tette (non so se si è capito, io nel dubbio persevero a ricordarlo). Per il resto, la regia di Verhoeven, per quanto ottima tecnicamente, non aggiunge nulla (il che mi lascia basito, vista la bravura del regista) mentre quella di Sylvester Stallone, nella sua semplicità e rozzezza, è onesta e vibrante soprattutto quando John Travolta, circondato da nuvole glitterate anch’esse senza senso, spande mascolinità a tutto spiano. Per non parlare, poi, della colonna sonora (OVVIAMENTE), con una memorabile Far from Over di Frank Stallone che ancora oggi mi gasa a mille. Insomma, Showgirls esce con le ossa rotte anche dal confronto con un film entrato nell’immaginario collettivo non certo per la sua bellezza, ma per essere un musical shakerato con bischerate assortite, nominato quale “peggior sequel della storia”.
Nonostante le astute intenzioni di regista, produttori e attrice, al cinema Showgirls fu un flop colossale, anche se recuperò tantissimo nel mercato dell’home video, mentre Staying Alive, in barba alla stroncatura della critica, fu un grande successo commerciale entrando nella top ten dei film più visti nel 1983.

Il cast
E qui casca l’asino.
Kyle MacLachlan.
Ma quanto è ridicolo il taglio?
Se pensavate che il problema fosse solo la sceneggiatura, magari salvata da interpretazioni convincenti delle attrici (e attori), beh, vi sbagliate di grosso. Il cast in realtà affonda nella mediocrità più totale. Non se ne salva uno, davvero. Kyle MacLachlan, probabilmente il nome più noto allora (inutile ricordarvi pietre miliari quali Twin Peaks, Dune, L’Alieno e The Doors, giusto?), qui pare capitato per caso, completamente incosciente del carrozzone in cui è finito dentro. Ha sempre un’espressione a metà tra l’ebete e il ghigno da “adesso te lo tronco io”. Poi di lui si vedono perfino delle chiappe marmoree quasi botticelliane e mi fa strano l’ingenuità dello stesso attore che dichiarò di essere convinto di fare un film artistico. Gina Gershon, che fino ad allora era nota per Danko, Cocktail e Melrose Place, esibisce una costante smorfia da schiaffi e una scarsa convinzione quando deve esibirsi nei balletti. Ce la vedo, con l’entusiasmo iniziale, che scema di ripresa in ripresa quando inizia a realizzare dove è finita.
Bayside School (*sospiro*)
E, infine, Elizabeth Berkley. No, vi risparmio tutta la tiritera su Bayside School, la sitcom adolescenziale simbolo del periodo fine anni ‘80 e primi ‘90 (di cui non mi perdevo un episodio: a me piacevano di più le altre due attrici, Tiffani Amber-Thiessen e Lark Voorhies), concentriamoci su Showgirls. Berkley ha scommesso tutto su questo film. Vorrei davvero prendere la macchina del tempo, tornare indietro nel 1995, sedermi di fianco a lei e dirle: “Cara Betta. Cosa diavolo ti fa pensare che dimenarti nuda per tre quarti di film possa essere una rampa di lancio per il successo? Il problema non è solo la percentuale di centimetri quadrati di pelle esibita, figuriamoci. Ma davvero recitando come se ti avessero messo il peperoncino di cayenna sulle chiappe ti fa pensare di puntare dritta al Golden Globe? Con quelle battute ridicole? Con quelle scene assolutamente prive di logica? Vorrei farti vedere l’elenco dei Razzie Awards vinti come peggior attrice dell’anno, la nomination di quella del decennio, il flop al botteghino, il fatto che il tuo agente ti avesse abbandonato dopo la prima proiezione, il fatto, infine, di aver terminato la tua carriera con questo film perché dopo ti sono state offerte solo delle misere particine. Ne è davvero valsa la pena, Bettina mia? Pensaci bene.”
No, lei è andata avanti a testa bassa e il culmine, il top, il momento catartico di tutto il film arriva inaspettato come la TARI a primavera: la trombata con Kyle MacLachlan in piscina. Quello che doveva essere il momento più hot del decennio, si trasforma in una scena che se fosse stata diretta dai famigerati ZAZ - Zucker-Abrahams-Zucker di Top Secret! e Una Pallottola Spuntata sarebbe entrata negli annali della comicità. Kyle mostra le terga ed entra in piscina con una bottiglia di champagne. Lei lo segue e - TRUCCATISSIMA - si inabissa. Tutti noi pensiamo che inizi a gonfiare il canotto ma no, lei gli passa sotto, sbuca dall’altra parte e, ancora TRUCCATISSIMA (come è possibile ciò? Ha usato l’eyeliner UniPosca?) inizia a cavalcarlo a bordo piscina. Solo che si fa leggermente prendere la mano e fa partire una serie grottesca di movimenti scattosi che provocano schizzi tipo elica di un fuoribordo; è come se lui percuotesse un cencio con un battitappeto sul bordo del fiume Gange, non so se rendo l’idea. Il contrasto è ancora più stridente se si ripensa alle doti scoperecce dimostrate da Kyle con la Rossellini in Velluto Blu e a quelle diametralmente opposte nella parte del marito impotente di Charlotte in Sex and the City. Ma qui, quando tutto finisce, lo spettatore resta inebetito, indeciso se scoppiare a ridere o provare pietà per la povera attrice. 
Purtroppo per lei, le colpe se le è prese tutte il regista troppo tardi, in un’intervista del 2013, in cui è lui stesso a dire: “Sono stato io a chiederle di recitare in quel modo. Eravamo convinti che fosse il ruolo giusto, ma ho sbagliato. La mia carriera è andata avanti lo stesso pur faticando un po’, ma la sua è stata proprio stroncata. Ed è un peccato, perché Showgirls è un film [udite udite!] CHE NON È STATO CAPITO dal pubblico.”
AAAAH!
Il pubblico: espressione un po' così.
Un po’ come Marty McFly davanti al pubblico anni ‘50 che, dopo aver suonato energicamente Johnny B. Goode e vista l’espressione esterrefatta della gente, dice: “Forse oggi non siete ancora pronti. Ma ai vostri figli piacerà.” (cit. Ritorno al futuro, per i debosciati che non l’hanno colta.)
No, caro Paul! Non solo hai diretto una solenne cagata, tu continui imperterrito a dirle! Showgirls è davvero un film brutto che non ha nulla di satirico o di denuncia contro la situazione delle spogliarelliste di Las Vegas. Vorrei poter tanto trovarci la feroce critica al sogno americano presente negli altri tuoi film, ma devo dire di aver fatto davvero molta fatica a vederla. Non mi sembra sufficiente il lasciar intendere: “Oh, il mondo dello spettacolo è una merda che succhia il sangue (e i soldi) ai papà di famiglia bigotti che di giorno fanno i perbenisti e di notte infilano banconote nelle mutande delle spogliarelliste. Un mondo schifoso dover per emergere tu devi essere il primo a fare schifo.” No, non basta, non è sufficiente perché il tema è solo sfiorato ed è poderosamente scavalcato (e cavalcato) dalle esibizioni della povera Berkley. Non puoi combattere l’idea della mercificazione del corpo femminile sbattendolo costantemente in primo piano senza una vera idea dietro. È solo una grottesca operazione senza né capo né coda, fatta solamente perché avevi un impegno precedente con la casa di produzione, ti sei ritrovato una sceneggiatura pagata a peso d’oro che nessuno poteva permettersi di buttare via, hai provato a bissare il successo di Basic Instinct con lo sceneggiatore Joe Eszterhas, hai cercato di salvare il salvabile ma, no, l’hai affondato definitivamente grazie alla tua direzione artistica. Volevi salvare Mario Kassar, il boss della Carolco, ma gli hai solo anticipato una inevitabile fine con colpi pelvici ben assestati. Poi il flop di Corsari nello stesso anno ha concluso degnamente l’opera demolitrice.

Da queste righe si può capire come questo film abbia fatto acqua da tutte le parti. Ergo è monnezza allo stato puro e, per forza di cose, arrivati a questo punto, bisogna porsi la domanda delle domande:

Showgirls è migliore o peggiore di Robotropolis?
Guardate il voto. Quello vero, intendo. Sì, gli è andato pericolosamente vicino. Di solito i film che competono con Robotropolis sono tutte produzioni low-budget dove nemmeno il genio o il guizzo di qualche idea permettono loro di emergere. Showgirls è il primo film di una major a giocarsi il titolo… ma ve l’ho detto, il tema di questa recensione è il FALLIMENTO. Sì, Showgirls fallisce pure ad essere peggiore di Robotropolis. Perché? Andiamo ai punti.
Trama: Showgirls è peggiore, indubbiamente. Di poco, eh.
Musica: Showgirls ha una buona colonna sonora (se hai un po’ di extra budget, è chiaro che puoi permetterti gli U2, tanto per dirne una, o David Bowie con I’m afraid of Americans, scelta invero azzeccata), Robotropolis non ce l’ha proprio.
Regia: se la giocano. La regia di Verhoeven è pulita, su questo non ci piove, si vede la bravura e i mezzi a disposizione. Ma ha l’aggravante della direzione artistica, che ha affossato il film. Quindi: pari.
Ritmo: Non mi sono addormentato, il che è già qualcosa. Showgirls in più ha un finale.
XXX: Beh. Vince Showgirls a man basse (e gambe alte)
Totale: Ai punti, con un bonus +0,5 per via delle tette di una maggior cura generale, Showgirls non è peggiore di Robotropolis. E un po’, devo ammetterlo, mi spiace.

Quello che Robotropolis non ha...

Conclusioni
Non riesco a trovare un singolo motivo per rispolverare questo filmaccio, a meno che non siate rimasti incastrati da una scommessa persa o da un guano di sfida ricevuto al quale non potete dire di no. Evitatelo (o guardatelo per ridere).
 
Il Pagellone!
Così è deciso!
Trama: 2
Insensata, con personaggi completamente sbagliati come caratterizzazione. Sceneggiatura ridicola, dialoghi grotteschi e sopra le righe.
Musiche: 7
C’è una bella colonna sonora, non posso negarlo.
Regia: 4
I mezzi a disposizione ci sono, ma il regista ha totalmente sbagliato la direzione, rovinando, con i suoi scellerati consigli, l’interpretazione e la carriera della povera Berkley la quale, diciamolo, non è che brillasse di suo per intensità recitativa. Peccato, perché la fotografia è ottima, come il montaggio e la resa visiva generale.
Ritmo: 6
Se c’è una cosa che non manca è il ritmo, sia musicale, sia narrativo. Un punto in meno giusto per i troppi dialoghi idioti dove i personaggi si scambiano inutili giochi di sguardi languidi.
Violenza: 5
C'è una scena di stupro gratuita nei confronti dell'unico personaggio positivo, che vuole sottolineare come le cose nel mondo reale non vadano mai come si vorrebbe. La domanda è: In questo contesto, era proprio necessario?
Humour: 6
Intendiamoci. Il film è serissimo. Ma fa ridere, e pure male, per l'assurdità delle situazioni e dei dialoghi sopra le righe.
XXX: 8
Dai, un premio alle tette! Lasciatemi questo punteggione!
Voto Globale:
(.Y.)
Come voto dovrebbe bastare così, ma per le persone serie il voto reale è 3,5. Un film orribile paragonabile giusto ad una vetrina del quartiere a luci rosse di Amsterdam: esibizione ostentata ma senza contenuti. Intendiamoci: dal punto di vista visivo è un bel vedere, ma se ci si deve frantumare le palle per due ore giusto per guardare qualche tetta, meglio rivolgersi ad un mediometraggio Penthouse, giusto per fare un esempio vintage. Ehi! Non guardatemi male, sono stato adolescente pure io! Tornando a bomba sul film: bocciatissimo su tutta la linea, non vale la pena rispolverarlo, datemi retta. Molto meglio gli altri film americani del regista olandese: Robocop, Atto di forza e Starship Troopers (in quest’ultimo sì che funziona bene la satira antimilitarista che gli americani non hanno colto!)

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...